20 maggio 2011

Habemus Papam

di Maria Elena Napodano (gliStregatti)

Sono andata a vedere Habemus Papam pensando di assistere ad una critica feroce, una satira sconsiderata e profetica su un mondo, quello del Vaticano, sorretto da regole contorte che basassero strategie politiche e comunicative su iniquità e brama di potere, e la prima cosa che posso dire è che da questo punto di vista sono rimasta delusa.
Niente complotti, niente manipolazioni, niente subdoli sarcasmi.
La storia gira intorno ad un piccolo uomo che, contro ogni pronostico, viene eletto papa da un conclave in terribile imbarazzo, per non aver trovato possibilità minime di accordi su nomi significativi, e che declina verso una comoda e conveniente sistemazione di breve termine. Una sistemazione che, di punto in bianco, catapulta la vita di un cardinale qualunque nella Storia, con la comune consapevolezza che di meglio non sarebbe stato possibile fare.
Comincia così la vicenda di uno strepitoso Michel Piccoli, che lancia un urlo da posseduto al momento della proclamazione, e che non si affaccerà al balcone della ribalta mediatica se non alla fine, quando annuncerà che non intende accettare la nomina a sommo pontefice, perché non si sente in grado di reggere un ruolo per il quale Dio avrebbe visto in lui qualità che in realtà egli pensa di non possedere.
La fine, ma proprio la fine di tutto, è quella ipotizzata dallo scenario conclusivo, nel quale una musica corale ed inquietante lascia di stucco ed inorridito, chiunque troverebbe assurdo e raggelante il fatto che, all’improvviso, milioni di fedeli possano ritrovarsi senza il bene-rifugio di una fede troppo spesso messa alla prova e bisognosa di un riferimento iconografico: la figura di una guida spirituale che dica loro cosa fare, in cosa credere, come mettere in atto un qualsivoglia principio da seguire per realizzare le proprie aspirazioni di militanti.
Balletti, partite di pallavolo intercontinentali, boccate di sigaretta, improbabili partite di scoponi scientifici, barzellette, è tutto ciò che Moretti mette in scena in un quasi patetico palcoscenico clericale lasciato scoperto da un qualunque siparietto.
Ecco quindi che dopo un inizio un po’ lento, in perfetto stile Sacher, prende il via una commedia decisamente divertente, intervallata da spezzoni di vita di un non ancora papa che riesce a dileguarsi (con un espediente scenico abusatissimo) ed andare in cerca di risposte che trova solo in un mondo del tutto immaginario, in cui si reinventa attore e poi semplice spettatore di una commedia di Cechov (drammaturgo guarda caso riconosciuto come sapiente de-scrittore della più disperata confusione spirituale), momento durante il quale, novello Gesù Cristo nella sua ultima cena, viene tradito e riaccompagnato di forza nelle sue stanze, dove, ci si aspetta, si deciderà finalmente a compiere i suoi doveri di capo della Chiesa.
Emozionante e disarmante è la scena in cui Piccoli continua a girare sull’autobus, provando e riprovando il discorso che avrebbe tenuto al momento della sua proclamazione ufficiale. Da Moretti stesso definito come indiscusso protagonista del film, Piccoli riesce a riappropriarsi con timida determinazione dell’attenzione del pubblico, a tratti distratto dalle peripezie cui lo psichiatra, chiamato in causa per aiutarlo a riabilitarsi, sottopone i diretti discepoli del clero, nel frangente in cui ancora non si sa il da farsi, e si attende fiduciosi il rientro in carica dell’eletto, illudendosi di vederlo passeggiare nelle sue stanze, dove un fantoccio è costretto a simulare la sua presenza, proiettando la sua ombra sulle tende delle camere private del papa.

E proprio quando la guardia svizzera, che sostituisce il vero papa, comincia a sollazzarsi nelle deliziose cibarie e bevande che gli vengono somministrate, parte la struggente Todo Cambia di Mercedes Sosa, finita chissà come nel lettore cd dello studio del Santo Padre, accompagnandoci verso la scena in cui la novella santa inquisizione irrompe nel teatro in cui va in scena Cechov, perlustrando ogni poltrona a tempo di un orrido ritmo che fa scostare le tende dei palchetti tutti contemporaneamente, come in un robotico e militaresco raid contro un presunto terrorista, messo in atto da una sequela di guardiani alla ricerca del fuggiasco.

Ma lui li gabba. Attende proprio il momento dell’affaccio ufficiale al balcone, per annunciare al pianeta che non se ne fa nulla, cosa che chiunque, dotato di una semplice e disarmante umiltà, dovrebbe saper dire nel momento in cui sapesse di non essere all’altezza, seppur di fronte ad aspettative gigantesche come quelle di un popolo che chiede solo di essere guidato. E questo, forse, è il monito più evidente, che Moretti propina in modo sobrio, caustico ed elegante, senza quei proclami indignati ai quali ci aveva morbosamente abituati.

M.e.N.

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