di Flavio Ignelzi
Thor è un gran tamarro, c’è poco da dire. E un film su di lui doveva essere così: tamarro, pacchiano, fracassone, supponente, contundente. Kenneth Branagh è british, e il contrasto tra la tracotanza albionica e la cafonaggine scandinava non poteva che generare scintille. In verità ha generato veri e propri fuochi d’artificio.
Nonostante i suoi proclama shakespeariani, il regista di Belfast è riuscito a realizzare un film che incarna la personalità bidimensionale del Dio del Tuono (e di tutti i comprimari) con accuratezza certosina, permutando auliche raffinatezze teatrali con virili bassezze di CGI, supportato dal miglior 3D che mi sia mai capitato di vedere sul grande schermo.
Basandosi molto sul lavoro svolto da J. Michael Straczynski nel suo (recente ed incompiuto) ciclo fumettistico, con una spruzzata dell’epicità di Dan Jurgens, Branagh costruisce quello che, a venti minuti dalla fine, era ancora il più riuscito film della Marvel Studios ad oggi. Una Asgard sci-fi (più che fantasy) con un Anthony Hopkins che nella sua vetusta immobilità incarna bene la severa maschera di Odino, un Hiddleston (Loki) squisitamente subdolo, una Portman bella e brava (ma lo sapevamo già), drammi familiari che posseggono l’intensità di una telenovela messicana, battutine e strizzatine d’occhio al nerd (un Occhio di Falco pronto a scoccare frecce), la distruzione di un paesello nel deserto per mantenere bassi i costi di produzione e oplà, il gioco è fatto.
Una antipatica accelerazione nel finale, che risolve tutto in troppo poco tempo (bastavano 10-minuti-10 in più), sgualcisce l’equilibrio complessivo, ma l’obiettivo è comunque raggiunto: raccontare gli istanti in cui il rude Thor, campione dei campioni tra gli Dei norreni, ha calpestato il suolo di Midgard (la nostra Terra). Come non aspettare con fremente apprensione il suo ritorno (con i Vendicatori)?