di Flavio Ignelzi
Ticchettii di dita sul muro, rumori attutiti in caseggiati pachidermici (severi come casermoni comunisti pre-guerrafredda), respiri al calore corporeo e aliti sul vetro, inquietudini sospese e realtà rarefatte in bianco e nero (nel senso di neve e notte). “Låt Den Rätte Komma In” amplifica tutti i dilemmi e le titubanze della pre-adolescenza, di quell’età indefinita in cui si è ancora troppo giovani per amare e già troppo vecchi per limitarsi a giocare, prendendo in prestito uno stereotipo horror fin troppo abusato per declinarlo in una inusuale prospettiva melodrammatica. Nell’opera cosciente di Tomas Alfredson il lento scorrere di ogni cosa attanaglia il respiro del giovane protagonista Oskar (Kåre Hedebrant, da applausi), imprimendogli una ineluttabilità che congela gli animi, ma scalda i cuori. L’orrore marcio fino al midollo rimbomba convulsamente e sporca di vermiglio il candore nevoso, accompagnato da screams in lontananza e da (misurate) efferatezze fuori campo. Percorso di crescita che sgrana un lento rosario di quotidianità, come una soporifera cantilena di periferia che regala l’impressione di galleggiare mentre inesorabilmente si sprofonda. La sceneggiatura essenziale e sobria di John Ajvide Lindqvist (adattamento di un suo romanzo) banchetta in egual misura con cliché kinghiani (il bullismo dei compagni di scuola) e drammi familiari (i genitori separati), delineando un mondo di indeterminatezze sessuali (Eli non è femmina, il padre di Oskar ha un ‘amico’) e di straziante solitudine (si comunica con il codice Morse). “Lasciami Entrare” decreta il risveglio dal torpore e una fuga in treno verso il nulla, verso il destino di Oskar già scritto, che è con tutta probabilità il medesimo del vecchio accompagnatore di Eli. Destrutturazione, riscrittura (più che rilettura), decontestualizzazione: Gus Van Sant non avrebbe saputo far meglio, potremmo azzardare per similitudini stilistiche, di questo autentico gioiello di cinematografia svedese.
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