di Maria Elena Napodano (Gli Stregatti)
La riduzione cinematografica di un romanzo non è mai semplice, specie quando si parla di criminalità con coraggio e rabbia, peggio ancora se l’obiettivo della ferocia narrativa di uno scrittore è la camorra.
E infatti Roberto Saviano ci aveva raccontato nei dettagli quelle false leggende metropolitane che apprendiamo dai nostri amici che vanno all’Università a Napoli, e che intorpidiscono l’immagine di certi luoghi, ormai tartassati dalle loro stesse contraddizioni e da un colpevole abbandono in cui progressivamente abbiamo lasciato cadere le cose.
Via tutti i nomi, la scene più agghiaccianti e i fatti che hanno inferocito i clan: nè più nè meno che una pur sempre tragica storia di due ragazzi di Scampia, alla quale si intrecciano altre atroci vicende, senza quei richiami a persone, circostanze, meccanismi di una delle industrie più potenti del mondo (ai cui giri d’affari si fa cenno solo in qualche titolo di coda) e che invece, nel libro, erano molto più presenti.
Un merito il film ce l’ha, ed è quello di aver posto l’hinterland napoletano sotto una macro-lente, svelandoci, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che un apparato vive di se stesso e da se stesso è fomentato. Perché lo Stato siamo noi, in camorra come in Democrazia.
Eppure (siamone orgogliosi) è stato un successo, di critica e di pubblico, cosa che non fa che riempirci il cuore, senza contare che almeno il problema è stato posto al centro dell’attenzione.
Troppo serio per essere una semplice sceneggiatura, troppo poco per essere un’accusa, il film Gomorra è quasi un documentario, se a tutto ciò si aggiunge che la verve, la dimestichezza con le armi, la familiarità di certi personaggi con la manipolazione della droga, lascia non poco intendere che la maggior parte delle scene abbia a che fare tutt’altro che con un set cinematografico, quanto piuttosto con vere e proprie scene di vita quotidiana. La domanda è: come hanno fatto a girarle proprio lì, in casa loro? Non sarà che i problemi “politici” sono stati lasciati altrove, puntando solo sul protagonismo dei bulli di Secondigliano?
Ad ogni modo, val bene la pena di andare a vedere questo film, prima di tutto perché il biglietto è un dovuto tributo alla causa: è come stendere il lenzuolo bianco per protesta al balcone, uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che un cittadino con una coscienza civile può ancora esercitare.
In secondo luogo, ci sono passaggi di un’intensità emotiva assoluta: il reclutamento delle matricole che si fanno sparare addosso per vincere la paura, lo sguardo del padrone della fabbrica tessile (un sensazionale Gigio Morra) sul suo capo-sarto che si è venduto ai cinesi, il vestito cucito da quest’ultimo (nei sottoscala dell’entroterra vesuviano) che sfila sulla croisette, le vedette poco più che adolescenti che sorvegliano l’entrata dagli scanni di un fatiscente 167, il porta-soldi Don Ciro che abbandona la sua cara Maria ai nemici e poi passa con gli scissionisti…e infine lui, Toni Servillo, sempre perfetto nel ruolo del disincantato cattivo: semplicemente Franco, un imprenditore dei rifiuti, riempi-cave-abusive a tradimento, che porta a Napoli tutta la ‘mmonnezza del Veneto.
Una delle scene che vale tutto il film, è quella in cui il suo assistente, schifato, lo lascia, e lui ridendogli in faccia gli dice “è la gente come me, che ha portato questo Paese in Europa”.
Una delle rare occasioni in cui quest’opera svolge la funzione che gli avremmo voluto attribuire noi, che, da meri spettatori, avremmo preferito una riduzione… meno riduttiva.