di Flavio Ignelzi e Ida Lacchè
Ovvero trasferire le dinamiche d’ufficio in un survival horror. Prendete un gruppetto di dipendenti di un’Azienda che produce armi (la Palisade Defence), sufficientemente variegato come ogni open-space che si rispetti, e speditelo in un isolato lodge immerso nelle boscaglie dell’Ungheria per un corso atto a migliorare lo spirito di gruppo ed il senso di appartenenza all’azienda. Come si comporterà tale gruppetto in una situazione estrema quale l’assedio ed il pericolo di vita? Ora, non lasciatevi ingannare dal livello di lettura più superficiale, e cioè quello di uno slasherino da due soldi che avanza per stereotipi consolidati, benché orchestrati con mestiere ed infarciti di trovate grottesche ed irresistibili (come la scena concitata della tagliola o quella surreale del piede nel frigorifero). L’opera seconda di Christopher Smith (al suo attivo già un decoroso “Creep - Il Chirurgo” del 2004) veicola attraverso i comuni cliché di genere ben altri messaggi. Innanzitutto la pellicola mostra la palese applicazione della legge del contrappasso (da carnefice indiretto/irresponsabile a vittima diretta/consapevole) che porta a svelare una ad una le vere personalità dei componenti del team. Il responsabile dell’ufficio che conduce il gruppo si fa velocemente vigliacco ed incompetente di fronte alla gestione di situazioni di pericolo e lontano dagli agi della sua poltrona; la biondina americana - la regina dell’open space per tonalità di biondo - e che emana sensualità ed invidie tra le scrivanie, si rivela determinata e vincente; il giovane collega un po’ qualunquista, interessato alle ragazze e agli stupefacenti ed immune ad ogni forma di aziendalismo presenta di fronte alla necessità, una mente creativa e sfidante, probabilmente per via delle sue frequentazioni con lo ‘sballo’; infine il professionista di colore incorruttibile ed impegnato nel suo lavoro cementa il gruppo con il suo spirito collaborativo e si guadagna nel finale la morte più eroica, provocata dalla ferita nel petto che ne esaurisce una ad una tutte le sue funzioni vitali; la sua morte è imprevedibilmente il punto di partenza per il riscatto della giovane eroina americana che, elaborato l’evento, centra il suo asse sull’obiettivo della sopravvivenza e lo raggiunge, sfida dopo sfida. In pratica non c’è relazione tra le capacità aziendali pregresse ed il superamento della prova (leggasi sopravvivenza): tutto come nella realtà, in sostanza, fino alla conclusione trash e commovente che ci lascia con un’ammiccante e dolce fantasia sessuale che aleggia intorno a due stangone, seminude e vendicative, equipaggiate di mitra, per sottolineare (come se ce ne fosse bisogno) che si tratta solo di un "povero" B-Movie che non vuol prendersi sul serio, e che la provocazione sessuale rilassante e liberatoria alla quale abbandonarsi è una gran bel happy end. L’umorismo nero molto british, un parterre di personaggi che non scade troppo nel becero stereotipo e l’ottima confezione (fotografia e montaggio, in particolare) fanno di “Severance” un intrattenimento più che gradevole. In scia alla robetta di Eli Roth (“Cabin Fever” in particolare), ma un po’ più in palla.
3 commenti:
Certo che su questo blog avete dei cognomi stupendi...
Bella recensione, comunque.
Ciao
Ale
Grandissimi ragazzi, ottima recensione!!!
Quando vidi "Severance" al cinema ne rimasi (più o meno) folgorato, davvero una gran bella sorpresa!
Ciau!
BenSG
Sull'onda del film, vi segnalo alcuni consigli x uscire indenni da un taglio del personale! ;-) Enrico
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