30 gennaio 2008

American gangster

di Flavio Ignelzi

C’hanno provato ad edulcorare un film di gangster sino quasi a nascondere gli intenti lirici che lo sottendono, ma non ci sono riusciti del tutto.
In questa emulazione della vita reale (‘tratto da una storia vera’), Ridley Scott sembra muoversi con disinvoltura, sfruttando soprattutto mestiere e schemi prefissati. In soldoni la storia di Frank Lucas, la sua ascesa (era un autista/picchiatore/killer), l’apice del suo successo (capo-famiglia, letteralmente) fino alla prevedibile caduta (il gabbio), che glorifica per l’ennesima volta l’american dream dell’uomo di strada che si è fatto da sé, e che raggiunge il successo grazie alle proprie forze, alle proprie idee e alle proprie intuizioni. Che, poi, si possono sintetizzare in una sola: quella semplice-semplice di eliminare gli intermediari dal traffico di droga. Accorciare all’inverosimile la filiera, insomma, comprando direttamente alla fonte (Vietnam) e rivendendo nelle strade di Harlem: un prodotto migliore ad un prezzo più basso.
Un po’ il commercio equo e solidale dello stupefacente, se vogliamo, che nel 1968 ci può anche stare. Due ore e quaranta convenzionali e semplicistiche (lo spettatore non deve sudarsi nulla, tutto è spiegato e sottolineato), retoriche e didascaliche (gli innesti di storia vera, manco fosse Pakula) che ruotano attorno al binomio Denzel Washington/Russell Crowe, sfruttati più come nomi di richiamo che non come attori di talento.
Il Male ed il Bene che si sfiorano, che si confondono, che trovano punti di contatto e che, nel confronto, si riconoscono. Sai che genialata (Andrew Lau, Alan Mak, calmatevi). Un boss che lavora nell’ombra, ligio alla ‘sua’ morale, incastrato da un poliziotto integerrimo, rispettoso dei ‘propri’ valori, che è anch’egli un illustre sconosciuto. Un film che non possiede scene epocali, che tende ad assecondare gli amanti di un certo classicismo hollywoodiano, che si presenta solido e senza sbavature, in cui la figura migliore la fa il montaggio incalzante del nostro Pietro Scalia, molto più della fotografia troppo livida di Harris Savides. Scott non possiede il tragico lirismo di Coppola, gli estetici virtuosismi di De Palma o l’epica sublime di Scorsese. Ma, viene naturale domandarsi, allora cosa possiede?

6 commenti:

KinemaZOne ha detto...

Insomma il solito Ridley Scott ambizioso e fondamentalmente povero di idee.

Ottima recensione!!!

Noodles ha detto...

Sono perfettamente d'accordo. Su ogni singola parola. Mi chiedo se Scott potrà mai tornare ai film che faceva tra la fine dei 70 e l'inizio degli 80... temo di no.

Anonimo ha detto...

Secondo me sei stato un po' troppo severo...in fin dei conti è il solito prodotto americano con i suoi modi ed il suo stile ( anche se è condivisibile aspettarsi un pelino in piu' da un regista come Ridley Scott :-)..buona recensione, io magari avrei sottolineato anche i tempi del film : troppo lungo a metà troppo corto alla fine nel raccontare "la redenzione".

Anonimo ha detto...

Sarà... ma in confronto ai "super adorati" film italiani del momento, mi è piaciuto un sacco... sopratutto la parte di Denzel W.


Saluti

Anonimo ha detto...

Caro Ferdinando, mi sorprende che anche tu ti schieri con tanti di quei spettatori (o critici) italiani che tirano - in modo secondo me superficiale se non ideologico talvolta - schiaffi in faccia a Ridley Scott, che secondo me è uno dei più grandi registi viventi. Ti invito a leggere il mio parere che ho dato su questo film al seguente link: http://www.mymovies.it/pubblico/articolo/?id=263119

Ti prego, non dire che Scott non possiede qualità (cosa possiede), perchè questa è veramente grossa... un abbraccio

Anonimo ha detto...

Oh oh, ora vedo, non sei Ferdinando, managgia. Scusa, rigiro tutto a Flavio. ;-)